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Per un sacco di carbone. Gli emigrati meridionali in Belgio nel documentario di Luca Vullo

Fonte Il Quotidiano della Calabria del 10 dicembre ’08 pag. 59 (di John Francis Lane)

 

CHISSÀ quanti sanno oggi che nel 1946 su iniziativa di Luigi Einaudi, Ministro del Bilancio di uno dei primi governi De  Gasperi e futuro Presidente della Repubblica Italiana, ci fu un patto segreto tra il governo italiano e quello belga per offrire una possibilità di lavoro agli italiani, soprattutto quelli del Mezzogiorno, pur accettando le condizioni imposte dal governo di quel paese.

La povera gente, soltanto uomini, che partivano dalla Sicilia e dalla Calabria, non sapevano cosa li aspettava quando lasciavano a casa le loro donne, madri, mogli o fidanzate, che potevano preparare per loro soltanto un po' di pane e olive per un viaggio in treno che sarebbe durato tre giorni.

Si sarebbe saputo soltanto molto tempo dopo che il governo di una nazione disperata - come lo era l'Italia appena uscita dalla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale - e molto bisognoso di aiuti economici, era disposto ad accettare un sacco di carbone per ogni emigrante italiano senza porre condizioni su come sarebbero stati trattate queste persone una volta arrivate.

Erano ancora da venire gli aiuti del Marshall Aid ma già in quel patto con i belgi con il senno del poi è possibile comprendere un primo tentativo di allontanare soprattutto dalla Sicilia disastrata dalla “liberazione” i disoccupati che rischiavano di diventare facile preda dei comunisti.

I traumi provati da alcuni sopravissuti di quelle prime ondate di emigrati in Belgio e le sofferenze da loro subite, con tutte le conseguenze umane e politiche, adesso sono raccontate in un bellissimo documentario girato da un giovane regista siciliano, Luca Vullo, che ha scelto il titolo significativo “Dallo zolfo al carbone”.

Il documentario, premiato in vari festival specializzati, arriva ora in dvd.

Il ventinovenne Vullo è nato a Caltanissetta, luogo che con la Girgenti di memoria pirandelliana, rappresentava una zona dove le miniere di zolfo erano state tra le più fruttuose nell'Ottocento ma nel secolo successivo erano decadute a causa della concorrenza di altri paesi, in cui i prezzi dello zolfo erano inferiori.

Durante il fascismo, malgrado le promesse propagandistiche che Mussolini fece agli Siciliani e il tentativo di sopprimere l'influenza della mafia (che dopo la liberazione sarebbe stata restaurata al potere grazie agli americani), l'economia siciliana a fine anni Trenta era in panne.

Poche erano le industrie siciliane che riuscivano a resistere, e nessuno voleva gestire quelle miniere di zolfo che non  rendevano più.

Dopo la caduta del fascismo e i disastri del dopoguerra, i figli e nipoti di quei minatori sono stati coloro che hanno accettato più volentieri questa offerta di lavoro in Belgio, diventando vittime di uno  fruttamento crudele nelle miniere di carbone belga. Una situazione che ricordava troppo quello che era stato inflitto ai loro antenati dai latifondisti siciliani.

Lo stesso Luigi Pirandello ha raccontato, in tanti tra i suoi primi scritti, le amare esperienze di uno che era cresciuto con il tanfo dello zolfo nell'aria e in seguito era stato colpito in famiglia dalle sfortune del padre che aveva una miniera di zolfo che rendeva bene ma che era poi finito nelle mani della malavita di Girgenti.

Quando Luchino Visconti realizzò in Sicilia nel 1947 il suo capolavoro “La terra trema”, il film doveva essere la prima parte – che appunto si sarebbe chiamata “Episodio del mare” - di una trilogia che si sarebbe occupata anche di contadini e di zolfatari.

Ma gli altri due episodi del progetto, in parte finanziato dal Pci, non furono mai realizzati.

Ecco invece il documentario di Luca Vullo che ci racconta di quei poveri eredi degli zolfatari, i quali parlano di come il loro sogno di iniziare una nuova vita in un paese del Nord fu presto infranto. Avevano invece vissuto quasi come prigionieri in baracche che erano infatti poi servite per i prigionieri di guerra tedeschi. Avevano vissuto per oltre cinque anni fuori della vita civile di un paese europeo. Non era permesso far venire le loro donne e non potevano frequentare la gente dei villaggi vicini dove lavoravano e dormivano.

Cercarono dunque di creare una comunità tra di loro – come raccontano alcuni dei sopravissuti o i loro figli intervistati da Vullo - e anche se c'erano inevitabili liti tra napoletani e siciliani alla fine si resero conto che una certa solidarietà tra loro era indispensabile.

L'autore del film è di padre siciliano ma di madre calabrese, di Gimigliano (Catanzaro) e Vullo dice che ha appreso da lei storie di calabresi che hanno subito la stessa sorte: molti di loro ancora soffrirebbero nella salute le conseguenze di aver lavorato in quelle miniere di carbone.

Tutti sanno della tragedia di Marcinelle ma pochi conoscono il dramma di quegli anni. Dopo il boom economico e l'inizio di più collaborazione tra i paesi europei, chi ha scelto di emigrare in Belgio dai paesi del Mezzogiorno ha avuto più fortuna e almeno i figli di questi emigranti sono riusciti ad inserirsi nella società fiamminga. Ma il film di Vulla, prodotto da istituzioni siciliane con tanto di sponsor, si occupa di quelli che partirono nelle prime ondate dopo la guerra, rimasti poi senza garanzie di sicurezza nè di una vita decente.

Il film, che dura 53 minuti, mi ha ricordato per il suo impegno e rigore stilistico certi documentari della scuola britannica dell'epoca degli  'arrabbiati' e come capitò a molti di quei registi debuttanti - destinati a diventare autori di fama internazionale come Lindsay Anderson e John Schlesinger - il giovane Vulla si permette di indulgere, forse un po'eccessivamente, in qualche distrazione estetizzante di troppo (nel suo caso questo avviene con le immagini delle mani di artisti al lavoro).

Ma speriamo che questo vezzo sia un segno, quello che anche Luca Vullo sia destinato a fare strada nel cinema d'autore.

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