L'Aiellese Remo Naccarato, uno dei padri della Gastroenterologia italiana intervistato dal Gazzettino
Di Aiellesi nel Mondo che si sono distinti nei campi del sapere o dell’imprenditoria ecc., ve ne sono diversi. In questo post vi proponiamo una intervista del Gazzettino (quotidiano del Nord Est) di sabato 21 novembre al professore Remo Naccarato.
Nato ad Aiello Calabro, in provincia di Cosenza, nel ’33, Naccarato è considerato uno dei padri della Gastroenterologia italiana. Oggi è professore emerito dell’Università di Padova. Iniziò gli studi a Cosenza, poi a Roma. Il suo primo posto di lavoro fu a Cagliari, dove rimase cinque anni. Seguì un periodo di perfezionamento in Olanda. Nel 1964 arrivò a Padova, al Policlinico, dopo essersi specializzato a New York e Londra.
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di Alberto Beggiolini (Il Gazzettino 21.11.09, pag. 11)
Professor Naccarato, la vedo bene...
«Pensi che qualche volta gioco ancora a calcio».
Come ai tempi delle mitiche squadre universitarie?
«Magari. Oggi sono solo quattro calci. Allora invece era vero agonismo. Ricordo le partite contro "La Moschea"...»
Immagino che via Anelli non c’entri niente, vero?
«No. La Moschea era la squadra di studenti africani. Quelli sì correvano».
Ed invece oggi si corre tutti troppo poco...
«Lo può dire. Oggi nell’epatologia c’è questa malattia, la steatosi non alcolica, legata proprio al nostro stile di vita, l’alimentazione, la sedentarietà, anche nei bambini».
I ragazzi però si muovono.
«Non quanto dovrebbero. In loro riscontriamo le patologie più emergenti. Con i virus ormai si sa come affrontare la situazione, tanto che l’incidenza di nuovi contagi è bassissima. Con le steatosi invece...».
Ma di quanti giovani parliamo?
«In alcune zone si arriva al 10% dei bambini affetti da queste sindromi. Compresi i figli di immigrati, molto spesso obesi. Nei loro paesi di origine non hanno problemi, qui invece...».
Per non parlare dell’alcolismo.
«Anche nell’alcolismo l’età media s’è abbassata moltissimo: si comincia già a 11-13 anni. C’è bisogno di fare più prevenzione. Il prossimo dicembre torneremo in Veneto con la Società di alcologia per celebrare il suo trentesimo compleanno».
Anche nelle scuole?
«L’educazione è fondamentale: negli scorsi anni abbiamo visitato tutte le scuole elementari».
Addirittura le elementari?
«Eh sì. Una volta si andava a parlare ai bambini degli eventuali problemi dei nonni, dei genitori. Adesso parliamo proprio di loro. Sono sempre problemi legati agli stili di vita "indotti", alla pubblicità».
Bere per sentirsi più parte del gruppo?
«Probabilmente sì. Bisognerebbe portare i ragazzi con le pattuglie della Polstrada: il tasso di 0,5% di alcolemia riscontrato negli automobilisti è più frequente di quanto si possa immaginare. Il viaggio educativo potrebbe passare poi per il pronto soccorso, magari il sabato sera. O nei reparti, dove almeno un terzo di degenti ha patologie alcol correlate».
Invece, cosa si fa?
«Poco. Anni fa cominciammo a lavorare nelle scuole, e con risultati positivi evidenti. Oggi invece stiamo tornando indietro. Ci fu anche il boom di "Città sana", poi con la soppressione dei budget...».
Professore, da quanti anni è a Padova?
«Dal ’64, quando Gastroenterologia non esisteva ancora».
Così lei entrò in una Medicina?
«Sì. In quel periodo comunque stavano nascendo le cattedre di Bologna, Roma, e Catania, sempre come servizi all’interno delle Medicine, poi con i concorsi si sono "accademizzate", proprio mentre sorgevano Gastroenterologie anche nei reparti ospedalieri a Torino, Verona e Roma».
E qui a Padova?
«A Padova nacque all’interno della Clinica medica diretta dal professor Fiaschi, negli anni Settanta. Poi divenne autonoma negli anni 85-86, all’ottavo piano del Policlinico».
Non era un caso, non si trattava di seguire una moda?
«Le patologie di quel tipo erano in forte aumento. Del resto, la stagione delle specializzazioni in medicina nacque verso il ’65, nella scuola romana, dapprima con Cardiologia, Pneumologia e via dicendo».
E la Gastroenterologia?
«Nacque subito dopo, spinta dall’aumento delle patologie specifiche, virali da virus B (scoperto in America nel ’67-68) e C (qui siamo già quindici anni dopo). Poi c’erano le malattie ulcerose: il virus specifico non si conosceva nemmeno, si parlava solo di itteri... La scoperta del batterio dell’ulcera risale a quindici anni fa: prima l’ulcera veniva sempre operata».
In breve cominciò l’era dei trapianti.
«Sì, con l’aiuto dell’allora assessore regionale alla Sanità, Covolo. Il primo trapianto di fegato a Padova risale al 1990 (fummo preceduti solo da Roma e Bologna), quando la nostra città era in testa alle classifiche per le donazioni».
La situazione è cambiata?
«Oggi c’è un calo: si è persa la tensione, non si fa più promozione...».
Però nel 1997 si segnò un’altra tappa storica.
«A Padova nel ’97 si eseguì il primo trapianto da vivente: c’era un bambino molto malato e il padre donò una porzione del proprio fegato, che fu innestato con successo. Servì un’autorizzazione ad hoc».
Come andò a finire?
«Bene: il bimbò guarì, ci furono pochi problemi di rigetto, vista la consanguineità del donatore».
Dopo i trapianti, qual è oggi la nuova frontiera?
«Adesso stiamo portando avanti le ricerche sulle cellule staminali, che fanno davvero ben sperare».
Professore, lei ha anche una delega universitaria per l’edilizia medica. Cosa ne pensa del nuovo ospedale?
«Chissà chi lo vedrà e quando, bisognerà mettere insieme Regione, Università e Comune, ma non mi sembra ci sia ancora un programma definitivo».
Insomma bisognerà tirare avanti così come siamo?
«La logistica sanitaria è un grosso problema. Il Gemelli di Roma, il San Raffaele di Milano e Tor Vergata hanno razionalizzato bene risorse e spazi. Qui l’anzianità delle strutture si fa sentire: soffriamo di scarsi collegamenti. E dire che quando il policlinico fu inaugurato era una struttura originalissima e funzionale, che metteva fine alla polverizzazione dei padiglioni».
Ma non basta più?
«Anche il Policlinico è superato. C’era stato un tentativo di costruire un’altra torre, abolendo le palazzine sopra le mura, ma poi... Eppure si sa che le costruzioni nuove devono essere in verticale, con servizi, radiologie, pronto soccorso, piastre chirurgiche comuni».
E bisogna pensare anche alla formazione e alla specializzazione dei giovani medici.
«Ad Harvard hanno coinvolto gli ospedali periferici, dove gli studenti vanno a specializzarsi. Un po’ c’abbiamo provato anche noi, con Rovigo, Treviso, Venezia. Ma ogni città poi pensava potesse nascere lì un altro polo universitario...».
Proprio sul decentramento si stanno consumando pesanti tensioni nella facoltà di Medicina padovana.
«Di frizioni ce ne sono state sempre. Certo, se fossero affrontate prima, non si arriverebbe ai botti. Per quanto riguarda il decentramento, bisogna anche dire che Venezia è già un’università, si trattarebbe solo di riattivare le funzioni. Treviso no».
Padovani gran dottori. Ma i padovani stanno bene?
«I veneti godono in assoluto di una buona longevità, i padovani in particolare. A Padova la libera professione medica ha attecchito poco...»
Cosa vuol dire?
abbiamo bisogno di persone così...
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