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Monongah, tragedia dell'emigrazione italiana. Vi perirono anche tre minatori di Lago (Cs)

TRA le centinaia di minatori morti a Monongah, West Virginia, il 6 dicembre 1907, ci sono una quarantina di calabresi. Secondo le cifre ufficiali dell’epoca, le vittime totali della sciagura sono 361, di cui 171 italiani. In seguito, si viene a sapere che probabilmente i morti si avvicinano a mille, la metà di origine italiana, provenienti da Abruzzo, Molise, Campania e appunto Calabria. I paesi da cui sono emigrati, ricordati in occasione del centenario, nel 2007, sono Caccuri, San Giovanni in Fiore, Carfizzi, Falerna, Guardia Piemontese, Strongoli, Castrovillari, Gioiosa Ionica, San Nicola dell'Alto. Da quache settimana, anche Lago, paesino in provincia di Cosenza, è incluso nell'elenco. Quel venerdì 6 dicembre, nella miniera della città del West Virginia interessata da una serie di forti esplosioni, muoiono anche tre emigrati di Lago. Un tributo di sangue che si va ad aggiungere alle storie già raccontate. Si chiamano Francesco Abate (Abbate), 42 anni, Carlo Giovanni, 19, e Giuseppe appena 14enne.
La tragedia per anni dimenticata viene ricostruita, analizzata e raccontata grazie allo studio di ricercatori e appassionati come Joseph Tropea della George Washington University che con perseveranza continua la sua ricerca dei parenti delle vittime. È soprattutto merito suo se si è riusciti a contattare in Italia figli e nipoti di quei poveri disgraziati. Nell'opera di divulgazione di questa triste pagina della più grave tragedia sul lavoro per gli emigrati italiani, anche un giornale come Gente d'Italia ha fatto la propria parte. Una pagina triste della storia dell'emigrazione italiana. “Come Marcinelle. Più di Marcinelle”.
Nei giorni 4 dicembre, giorno di S. Barbara patrona dei minatori, e 5 dicembre del 1907, giorno in cui viene anticipata la celebrazione di S. Nicola, la miniera di Monongah, dalla quale si estrae carbone ed ardesia, è rimasta chiusa. Il paesino dei monti Appalachi, tremila anime, ha avuto due giorni di festa per tutti. Secondo la ricostruzione del prof. Tropea, la Compagnia che gestisce la miniera, nei giorni di chiusura per risparmiare ha spento gli aereatori e di conseguenza il gas grisou si è accumulato nelle gallerie. Quel venerdì 6 dicembre, al ritorno al lavoro dei minatori, è bastata una scintilla per far saltare tutto in aria. Poco prima delle 10.30, due esplosioni devastano la miniera. Il boato si sente a 12 chilometri di distanza. Un terremoto che sconquassa il ventre della miniera e fa tremare la terra circostante. Subito dopo, è un coro di grida, di disperazione. Dalle baracche in cui vivono i minatori e le loro famiglie, mogli e figli, parenti, ed i minatori degli altri turni, si precipitano verso il luogo dello scoppio. Un fumo denso e aspro fuoriesce dagli ingressi. I soccorritori si danno da fare, ma la situazione è infernale. Si salveranno solo in 4 o 5. Nei giorni successivi, i corpi recuperati sono centinaia e centinaia, ammassati prima nella banca locale, e poi sul corso principale. Vi sono, tra i corpi dilaniati riconosciuti dai parenti, anche moltissimi non identificati che verranno seppelliti in fosse comuni. Circa 250 le vedove, e un migliaio gli orfani, le conseguenze che la tragedia ha lasciato. Le stime fatte a ridosso dell'incidente parlano di cifre più contenute rispetto a quelle ipotizzate successivamente. Molto importante, per non dimenticare quanto avvenuto, il ruolo del reverendo di Monongah, Everett Francis Briggs, che nel 1964 in una pubblicazione raccoglie documenti, testimonianze dei parenti.
Se il numero delle morti è controverso, quelle che invece appaiono certe sono le terribili condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori che possono contare - con il cd buddy system o pal system - nell’appoggio altrui per affrontare e sopportare le ostili condizioni di vita nei cantieri. Questi aiutanti, che si recano al seguito dei minatori dentro le gallerie, non vengono assunti, non è nemmeno registrato il loro ingresso. Prendono solo qualche mancia, a secondo della quantità di ardesia che riescono a portare in superficie. La paga dei minatori è poco meno di un dollaro al giorno, anche se in proporzione più alta di un bracciante calabrese di allora. Si vive in piccole baracche di proprietà della stessa compagnia mineraria, spesso fatiscenti e prive degli indispensabili servizi igienici. L'orario di lavoro è di più di dieci ore al giorno. Un tipo di lavoro che gli altri emigrati non sono più disposti a fare e che viene invece fatto dagli italiani che insieme a polacchi, slavi e turchi, avranno le maggiori perdite di vite.
Dopo il gravissimo incidente, purtroppo, non c’è l'interesse delle autorità per accertare le responsabilità, e anche i risarcimenti alle famiglie spesso non arrivano mai a destinazione.
LA RICOSTRUZIONE STORICA DEL PROF. TROPEA E LA VICENDA UMANA DELLA FAMIGLIA ABATE
Lo scorso mese di ottobre, Tropea ha visitato Lago (a sinistra, nella foto con Pino Cino), accompagnato da Enrico Grammaroli dell’Università Tor Vergata di Roma, per avere delle conferme sulle sue ricerche e sulle vittime laghitane. Una ricostruzione della vicenda della famiglia Abate -, che si è svolta tra gli archivi comunali, e parlando con le persone più anziane -, alla quale non hanno fatto mancare la solerte collaborazione Giuseppe Cino della neonata associazione dei “Laghitani nel Mondo”, e il cav. Salvatore Muto, mente storica degli emigrati laghitani.
Francesco Abate nasce a Lago nel 1865 da Carlo e Luigia Scanga, primo di 5 figli. All’età di 22 anni si sposa con Maria Gaetano di Castrovillari. Dal matrimonio nasceranno: Carlo Giovanni nel 1888, Giuseppe nel 1893, Luigia nel 1896, Battista nel 1898, Giovanni nel 1900 ed infine Enrico nel 1903, anno in cui la famiglia emigra in America in cerca di fortuna. Qui, il padre Francesco con i figli Carlo e Giuseppe vengono assunti dalla “Fairmont Cool Company” che opera nell'estrazione del carbone. Lavoreranno sotto terra a decine e decine di metri sotto le profondità del fiume West Fork, sino a quella mattina di dicembre. Gli Abate si trovavano tutti e tre nella galleria n° 6 dove perdono la vita - sempre stando alle cifre ufficiali fornite nel gennaio 1908 dall'Annual Report of Department of Mines del West Virginia - una sessantina di italiani, mentre più di un centinaio moriranno nella galleria n° 8.
Da allora, dopo la loro morte degli Abate si perde memoria della tragedia. Giuseppe, fratello di Francesco che era rimasto a vivere nella propria terra, di questa storia non aveva più saputo nulla, e né la pronipote che attualmente vive a Lago, con la quale ha avuto modo di parlare il prof. Tropea, ha mai saputo della sorte dei congiunti emigrati. Ora, grazie al lavoro di scavo del docente della cattedra di sociologia alla George Washington University, e figlio egli stesso di un minatore italiano di origini calabresi, che da una quarantina di anni compie ricerche sul disastro di Monongah, si conosce un pezzetto di storia in più di questi sfortunati nostri connazionali che invece di realizzare i loro sogni, in America hanno trovato la morte, sepolti lontano, su una collina di Monongah.
LINK UTILI - http://arlweb.msha.gov/DISASTER/MONONGAH/MONON1.asp

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